Fear Factory - biografia
I Fear Factory si formano a Los Angeles nel 1990 per mano di Dino Cazares (chitarra), Burton C. Bell (cantante) e Raymond Herrera (batteria). Gli affreschi sonori realizzati nel primo album - Soul Of A New Machine (Roadrunner, 1992) - costituiranno il diktat ideologico-musicale per la nascente generazione cyber-punk. Plasmati dall’esperta mano del produttore Colin Richardson, i ritmi post-Grind si frammentano lasciando spesso campo alla pura angoscia esistenziale dettata dalle glaciali cadenze dell’Industrial music. La disperazione cantata dai Fear Factory eguaglia l’impatto fisico di gruppi come i Napalm Death, suonando addirittura più terroristica. Il loro pantheon infernale non è circoscritto al ruggito primordiale Death Metal di Leechmaster e Lifeblind; la carica di Scapegoat è una scudisciata d’indicibile potenza; Martyr (chitarra usata chirurgicamente su vocalizzi simil gregoriani) e Self immolation presentano germi di originalità che saranno saccheggiati da tante altre bands, mentre Scumgrief è una cinica visione apocalittica. C’è sincero, cupo malessere esistenziale dietro queste detonazioni sonore; stupiscono le metamorfosi vocali di Bell: Crisis è fondamentalmente un duello tra un angelo ed un demone affrontato dal medesimo, tormentato protagonista. Fear Is The Mindkiller (Roadrunner, 1993) è la successiva, rischiosissima, evoluzione: un mini album di remix assemblato da Rhys Fulber e Bill Leeb dei Front Line Assembly. Da un punto di vista meramente cuilturale si tratta di un’opera che non è esagerato definire pionieristica: dopo i Prong, un’altra metal band si affranca dai pregiudizi tipici del genere per abbracciare la dj culture. Il disco successivo - Demanufacture (Roadrunner, 1995) - prodotto da Rhys Fulber - segna l’ingresso del bassista definitivo (il belga Christian Olde Wolbers) e, soprattutto, la nascita ufficiale del cyber-metal. Demanufacture è un’alternanza di accelerazioni hardcore e stacchi di ampio respiro; Self Bias Resistor diventerà un richiestissimo anthem dei loro concerti; Zero Signal è come se Vangelis suonasse con i Pantera; PissChrist è una mitragliata culminante in un crescendo altamente drammatico; la conclusiva A Therapy For Pain è catarsi in sinfonia dark. La musica non sembra nemmeno provenire da esseri umani bensì da macchine che non lasciano scampo, in particolare la batteria di Herrera, un propulsore ritmico che estremizza la lezione di Dave Lombardo. Il campionario dei Fear Factory è fuori discussione: la voce di Bell si trasforma da grugnito primitivo a tono crepuscolare stile Nick Cave (l’hit underground Replica); la cover degli inglesi Head Of David (formazione pre-Godflesh), Dog Day Sunrise, dimostra, inoltre, come i Fear Factory siano profondi conoscitori della materia e non meri calligrafi. Remanufacture (Roadrunner, 1997) completa il cammino iniziato con Fear Is The Mindkiller: Si tratta, infatti, di un remix-album griffato da Rhys Fulber, Junkie XL, DJ Dano e Kingsize, nonostante la validità del quale il conservatore pubblico Metal continua a storcere il naso. Il seguente LP - Obsolete (Roadrunner, 1998) - è una ri-proposizione - complice la produzione di Fulber - non particolarmente aggiornata del “FF sound”. Shock e Hi-tech Hate sembrano outtakes di Demanufacture, Timelessness (in cui compare un’orchestra) e la melodica Resurrection cercano di esplorare nuovi orizzonti, riuscendoci però solo parzialmente, nonostante l’ambiziosa struttura dell’ album (un concept chiaramente ispirato alle saghe di Philip K. Dick). Il singolo di turno è Edgecrusher, completato da un bell’inserto di scratch ma i Fear Factory arrivano a vendere 500.000 negli States solo grazie all’EP seguente (Cars) che riesuma in chiave Metal un vecchio brano del nume tutelare Gary Numan, facendone il loro unico, vero hit. Digimortal (Roadrunner, 2001) è annunciato come un best seller ma fallisce clamorosamente: gli arrangiamenti non convincono ed il gruppo si limita a rivisitare idee e suoni già noti. Questa volta anche la produzione di Fulber (cui il gruppo si rivolge dopo aver incassato il rifiuto di Bob Rock) si limita a riverniciare brani anonimi (What Will Become), che virano verso il trend Rap-Metal (l’imbarazzante Back the fuck up, con l’ospite B-Real dei Cypress Hill) o che scadono nella noia (Damaged, Byte Block). Non bastano l’abile sintesi radio friendly di Linchpin, la semi-ballad Dark Invisibile Wounds (Dark Bodies) o la conclusiva (Memory Imprints) Never End (degno seguito di A Therapy For Pain e Timelessness) a risollevare un disco che si dimostra un’ecatombe commerciale, stritolato dal filone Nu-metal che gli stessi Fear Factory hanno contribuito a creare, pur non riuscendo mai a carpirne l’immediatezza compositiva. Squassata da una crisi interna la band decide di sciogliersi per poi riemergere nel 2003, orfana di Cazares e con Byron Stroud (Strapping Young Lad) posizionato al basso (Olde Wolbers passa alla chitarra). Dopo la pubblicazione di Concrete (Roadrunner, 2001, ossia la prima, acerba registrazione di Soul Of A New Machine, curata dall’allora sconosciuto Ross Robinson) e della pressoché inutile raccolta di B-sides Hatefiles (Roadrunner, 2003) i rinnovati FF si ripresentano nel 2004 con Archtype (Liquid 8 Records). Si tratta di un come back, per certi versi, inaspettato, con sonorità collocabili a metà strada tra l’oltranzismo del periodo Soul Of A New Machine e la vena maggiormente sperimentale di Demanufacture; Burton C. Bell canta come mai era riuscito a fare in precedenza, assecondato dalle consuete mitragliate chitarristiche di una band che procede come un cyborg tra frequenti echi New Wave e rabbia in pieno stile Death Metal. L’obiettivo da sempre perseguito e sinora mai raggiunto (ossia la brutalità coniugata a convincenti linee melodiche) è finalmente alla portata di un gruppo che sembra giunto al suo acme esecutivo e che non ha più paura di osare (School, travolgente cover dei Nirvana). La ritrovata brillantezza artistica sfocia, infine, nel seguente, ottimo, album, Transgression (Calvin/Roadrunner, 2005). Avvalendosi del contributo compositivo di musicisti del calibro di Billy Gould (Faith No More) e Jack Morton (Lamb Of God) e dell’ eccellente produzione dell’ illustre Toby Wright, i FF presentano quello che si potrebbe definire l‘album della loro maturità. La pesantezza dell’ extreme Metal è asservita a brani dotati di ottimi refrain (la splendida Supernova), granitici nelle parti strumentali e carichi di pathos nei vocalizzi di Burton C. Bell. Sorprendono le, fedeli, riletture di due brani come I Will Follow (U2) e Millenium (Killing Joke) ma sorprende più ogni altra cosa la continua freschezza di un suono che i Fear Factory hanno forgiato negli anni, prima che se ne appropriassero le mode e mille altri gruppi.
© CM 2006
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