Sunday, June 25, 2006

Glenn Danzig - biografia



Glenn Danzig, con i Misfits prima, insieme ad i Samhain successivamente ed infine come solista, è stato una delle massime espressioni del rock più tenebroso, impersonando come pochi altri quell’insano melange tra mal de vivre ed occultismo - talvolta d’accatto - che si cela dietro parecchi racconti cari ad una - ironia della sorte! - defunta pubblicazione quale Weird Tales. Dai tardi anni settanta sino ad oggi, il nerboruto cantante è divenuto non un personaggio di culto ma il culto di quel personaggio, come se un fumetto prendesse vita animandosi improvvisamente.
I classici di Danzig hanno una precisa collocazione in quel percorso del gotico musicale che ha inizio con il “patto diabolico” siglato da Robert Johnson per arrivare sino ai Sisters Of Mercy, Nick Cave e Type O Negative, passando per Doors, Black Sabbath e Johnny Cash.

Nella sua musica il riferimento all’horror - principalmente di matrice underground - è palese: la macabra icona dei Misfits - il celeberrimo Fiend Skull - è tratto da un serie televisiva (The Crimson Ghost), mentre quello dei Samhain è lo stesso usato per il fumetto Crystar, edito dalla Marvel; i caratteri del logo Misfits sono, invece, i medesimi dei fumetti Eerie And Creepy e Famous Monsters Of Filmland.
Il gioco dei rimandi non può poi non estendersi ai Misfits che, guarda caso, celebrano il proprio scioglimento la notte di Halloween del 1983.
A questo si aggiunga che molti titoli (valga per tutti Night Of The Living Dead) sono tratti di peso da celebri pellicole dell’orrore; la copertina di Walk Among Us è il poster di Earth vs. The Spider; un’altra copertina (quella del primo LP) ripropone una foto del ragno celebrato in un puntata intitolata The Zanti Misfits (dal TV serial The Outer Limits).
E’ a questa preziosa sottocultura che Glenn Danzig si abbevera, mutuando altresì le personalità dannate di alcuni suoi idoli (Jim Morrison) che fagocita in un ottica ancora più dark.
I rituali pseudo satanici da lui officiati in musica non fanno che ripetere all’infinito la formula della disperazione più cupa che la cultura dei bianchi ha rubato dal blues, originario patrimonio della tradizione nera; la sua voce baritonale domina tali drammi teatrali come solo pochi show-men hanno saputo fare.

Dopo lo scioglimento dei Misfits, Glenn Danzig (che nel 1981 aveva già esordito da solista con il 45 giri Who Killed Marilyn?) dà vita ai Samhain con il batterista Steve Zing ed il bassista Eerie Von, già fotografo/roadie dei Misfits. La prima uscita a loro nome (Initium, Plan 9, 1984) è attesa da una folta schiera di seguaci guadagnati grazie ad un continuo passaparola underground.
I Samhain si collocano sulla stessa scia dell’hardcore mortifero dei Misfits, con maggiori sfumature metalliche che la rendono al passo con i tempi. Le liriche invece rifuggono dal “trend comics” per concentrarsi su - inediti - temi vicini al paganesimo; in realtà, la differenza principale tra i Misfits ed i Samhain è costituita dal sempre maggiore affermarsi della personalità di Danzig; l’inno del gruppo (Samhain), l’inquietante Archangel e la nostalgica All Murder All Guts All Fun (il brano più vicino alla follia ludica dei Misfits), si aggiungono ad un pugno di altre tracce già divenute dei classici.
Di contro, il successivo mini album (Unholy passion, Plan 9, 1985) re-interpreta l’originaria ispirazione horror ottenendo - talvolta involontariamente - effetti ancor più clowneschi dei Misfits stessi (Moribund e The Hungry End sono impeccabili quanto prevedibili esibizioni di un acquisito manierismo da parte di Danzig).
La breve, ma intensa saga dei Samhain ha termine nel 1986 con il secondo album (November Coming Fire, Plan 9, 1986). Dilatato a dismisura lo spirito gotico di molti brani (le tematiche affrontate appaiono ora meno truculente), enfatizzato ulteriormente lo stile del suo lamento vocale e confermata la cadenza funerea divenuto inconfondibile trademark, Danzig maneggia la propria musica con innegabile mestiere.
Gli slanci verso un heavy metal tout court (palesi in Halloween II), non possono mascherare la sua vera passione, il pop adulto: Let The Day Begin è un anthem trascinante, il suo teatro del grand guignol va in scena con Mother Of Mercy, gode perversamente nel convulso sabba infernale di Human Pony Girl ed ha il suo diabolico acme in To Walk The Night, dove il fantasma di Jim Morrison continua a non volersene andare.
La compilation postuma (Final Descent, Plan 9, 1990) rivelerà almeno un’altra inedita perla di valore: Lords Of The Left Hand.

Il sinistro pantheon di Danzig, popolato da mostri di ogni genere, vampiri, streghe, incredibili marziani, cannibali, licantropi e zombies, rifugge da qualsiasi pretesa intellettuale, ma fornisce una valida rappresentazione dell’esistenza contemporanea. Nelle sue morbose liriche rivivono, infatti, i drammi sociali di un’umanità di emarginati, esattamente come nella cinematografia di serie B (cui spesso sono stati paragonati i suoi testi) si rispecchiano le paure recondite tipiche della middle class. A tal proposito Glenn espone il suo intento filosofico: demolire il concetto del male contrapposto al bene ideato sia dai dogmi religiosi che dalle correnti laiche, restituendogli così quella valenza più indefinita e misteriosamente arcaica che lo contraddistingueva presso le civiltà pagane.
Ogni suo lavoro può, in effetti, essere interpretato come un dictat, un’esposizione del “Danzig pensiero” di un mondo in cui il - labile - confine fra bene e male è stato spostato in un punto ignoto e non facilmente localizzabile. Approfittando di una rinnovata esplosione d’interesse per i Misfits (principalmente fomentata da Metallica e Guns N’ Roses, che non perdono occasione per citarli come fonte d’ispirazione), abilmente manovrata dal producer-guru Rick Rubin, che circonda Glenn Danzig di una band talentuosa (gli ex compagni dei Samhain Eerie Von al basso e John Christ alla chitarra più la leggenda underground Chuck Biscuits, batterista di lungo corso già con: D.O.A, Red Hot Chili Peppers - nel 1985 - Black Flag, Nig Heist, Circle Jerks, Descendents, Fear, Social Distortion e, addirittura, Run DMC! - l’album è Tougher Than Leather), sono ufficialmente lanciati i Danzig.
La campagna promozionale che li spinge verso le masse statunitensi è astutamente volta ad esaltare il “dark side” del leader, il cui l’omonimo album d’esordio - Danzig (Def American, 1988) - ne è il legittimo manifesto.
Originariamente la denominazione prescelta era Glenn Danzig And The Power And Fury Orchestra, poi accantonata in favore del più semplice Danzig, su pressione del pigmalione Rubin; riprendendo le infernali trame sonore dei Black Sabbath, Glenn Danzig celebra messa nella sua cattedrale sconsacrata: Am I Demon (che definire Doom è quasi un eufemismo) e Mother (che rimarrà il suo maggiore hit) risuonano di un potere quasi ancestrale ed iniziano a mietere vittime presso i fans d’oltreoceano, da sempre attratti da istrioni grotteschi e dal forte contenuto spettacolare (da Alice Cooper ai Kiss per finire con WASP e Marilyn Manson).
A stemperare il clima da tregenda del disco giunge She Rides, con cui Danzig si re-incarna nel cantore maledetto per antonomasia, Jim Morrison; questo, come tanti altri brani, dimostrano quanto la sua vena di interprete abbia radici nella tradizione nera, vedasi la magnifica Soul On Fire, quasi un gospel trasfigurato da sonorità metalliche o Not Of This World, che lo vede in un’inedita versione da heavy crooner.

Lucifuge (Def American, 1990) accentua ulteriormente le similitudini con i Doors, ma la qualità dei brani è innegabile: Long Way Back To Hell è un boogie rock, 777 è uno spiritual stravolto che annichilisce, Killer Wolf è invece puro Delta bues.
I' m The One rimescola le carte in tavola, trattandosi di uno shuffle acustico immerso in una palude del Mississipi intonato con un’ alternanza di tenui sussurri e grida da pelle d’oca. Danzig sembra quasi un Presley appena tornato dall’oltretomba; discorso simile vale anche per Blood And Tears sorta di ballad fuori dal tempo nata sempre sotto l’influsso di Elvis.
Tuttavia, ciò che emerge più prepotentemente è il ritratto di un artista sempre tormentato, che si aggira solo in un universo morale sempre più plumbeo; le stesse immagini del male sono ora metafore oniriche che talvolta lambiscono la paranoia.
L’ “horror-core” dei Misfits, parodia degli anni ‘50, si trasfigura nel “folk-core”, ideale colonna sonora dei primi ‘90; come nel caso del cinema di serie B, anche la componente meta-culturale finisce col riempirsi di profonde valenze psicologiche, dove è sempre il dolore a regnare incontrastato.
Anche un brano meno ispirato (Tired Of Being Alive) rivela una profonda disperazione esistenziale, emozioni vissute sulla propria pelle unite ad un horror interiore, uno spiritual orgiastico suonato in un bar dell’inferno da una banda di demoni invasati. In linea di massima, il disco esplode con una potenza ed un’intensità terrificanti; i vertici drammatici sono racchiusi nelle imitazioni più fedeli: Devil's Plaything ricorda Crystal Ship dei Doors, mentre Her Black Wings si avvicina all’isteria Dark di Nick Cave.

Il terzo album - How The Gods Kill (Def American, 1992) - consolida il trademark del gruppo senza apportare sostanziali innovazioni al suono; le pachidermiche ritmiche stile Black Sabbath (Godless) si alternano a momenti di maggior tensione dal taglio - Led Zeppelin (Bodies, quasi un plagio di How Many More Times), ma Glenn Danzig, ormai istrione smaliziato, riesce ancora a comunicare una violentissima scossa emotiva anche nei contesti più easy, come nelle tragiche strofe di Anything (uno dei brani più radio friendly).
E l’originario amore per il blues più luciferino (Heart Of The Devil) è sempre lì a dimostrarlo; l’apice è raggiunto con la ballata Sistinas; per una volta Danzig, messo da il parte machismo farsesco che spesso lo caratterizza, miscela Cave, Morrison e Presley per una discesa negli abissi più torbidi dell’umana psiche; il suo sinistro universo popolato di diavoli e freaks diventa una tetra allegoria e le canzoni fungono da meste parabole di vita, piuttosto che crude cronache di morte.
Ed il paragone con le Murder Ballads di Nick Cave sembra azzeccato.
Il seguente EP - Thralldemonsweatlive (American, 1993) - monetizza la popolarità del combo, pur non aggiungendo alcunché di significativo (solo due le nuove composizioni, It's Coming Down e The Violet Fire); il primo parto da solista di Glenn Danzig era invece arrivato l’anno precedente: Black Aria (Plan 9, 1992) una sorprendente, sinfonia classica strutturata in nove movimenti in cui il mastermind è affiancato dalle cantanti Janna Brown e Reneé Rubach; parte del materiale di questo album risale a registrazioni effettuate nel lontano 1987.
Danzig 4 (American, 1994), il quarto album, segna decisamente il passo; la stasi creativa è rivestita da un vernissage di arrangiamenti più magniloquenti del solito, ma la sostanza non cambia. sconcertano le continue auto-citazioni e l’incapacità di proseguire il discorso dark/heavy/blues brillantemente intrapreso in precedenza; a salvarsi sono stavolta il primo singolo Cantspeak (tra loops e tastiere che contornano una maiuscola odissea vocale di Danzig) ed il trip hard/psycho di Sadistika, che riescono a sfruttare sapientemente le nuove tecnologie, senza snaturare un sound che dà preoccupanti segni di involuzione. Biscuits decide di mollare, seguito in rapida successione dagli altri componenti, lasciando il solo Glenn Danzig al timone di una band che naviga in acque sempre più agitate.
Blackaciddevil (Hollywood, 1996), è il disco di rottura, sia con il nobile passato dark che con la vincente partnership Rick Rubin/American Recordings. Dismessa in toto la vecchia formazione e con le collaborazioni - purtroppo impalpabili - di Jerry Cantrell (Alice In Chains) prima e Tommy Victor (Prong) dopo, Danzig offre una colata di industrial/metal posticcio e scadente che in parte perpetra la vena sperimentale di IV; pochi sono i brani memorabili: il singolo Sacrifice, Power Of Darkness ed una stravolta cover di Hand Of Doom. L’inevitabile conseguenza è che il fedele seguito costruito in tanti anni di attività in studio e sul palco si mostra del tutto disinteressato ai nuovi Danzig, facendo sì che Blackaciddevil si riveli un disastro commerciale di proporzioni colossali.
Del gruppo si perdono le tracce per circa tre anni, durante i quali l’instabilità della formazione raggiunge punti critici (si avvicendano alle chitarre Mark Chaussee, Dave Cushner e l’ex Pygmy Love Circus Jeff Chambers), con il solo Joey Castillo a fungere da stabile componente insieme al cantante (per un breve periodo anche il bassista - ex roadie - Josh Lazie lascia in favore di Rob Nicholson, prima di tornare sui suoi passi).
Glenn Danzig ricompare finalmente nel 1999 con un nuovo, roccioso album - 6:66 Satan's Child (Nuclear Blast, 1999) - il primo ad essere inciso per una etichetta indipendente. L’iconografia satanica continua ad essere ostentata, rivelando una certa stanchezza di idee anche sotto il profilo estetico ed disco si dipana tra voglia di sonorità moderne e nostalgici richiami agli esordi. L’impressione generale è che proprio questi ultimi (le ottime ballate notturne Thirteen and Cold Eternal) forniscano motivo di interesse, a differenza dei brani più recenti (il singolo Belly Of The Beast, tormentone mortalmente deja vu).
La formazione (Glenn Danzig, Josh Lazie, Jeff Chambers, Joey Castello) si sfalda poco dopo l’uscita dell’album: Chambers viene licenziato per problemi di immagine (?!) ed al suo posto entra Todd Youth, chitarrista dal curriculum punk/hardcore di tutto rispetto: Warzone, Agnostic Front, Murphy’s Law, D-Generation e Chrome Locust.
Live On The Black Hand Side (Restless, 2001) è un doppio album dal vivo che giunge a colmare una lacuna nella discografia della band, cercando altresì di riconquistare quella fetta di pubblico che sembra non aver ancora perdonato ai Danzig la svolta industriale che ha caratterizzato la seconda fase della loro carriera.
Ed infatti sono proprio le esibizioni del periodo 1992-94 quelle che lasciano il segno dimostrando una band compatta, musicalmente preparata e guidata da Glenn Danzig con l’usuale maestria; di contro, lo show risalente al 2000 fa apparire la band quasi come la parodia di se stessa, nonostante sia formata da smaliziati veterani della scena punk (Todd Youth, alla chitarra, Howie Pyro - ex The Blessed/D-Generation - al basso ed il batterista Joey Castillo - già con Wasted Youth/Sugartooth/Hide) che finiscono col fare la figura dei meri comprimari assoldati quasi in una cover band. Danzig continua a mostrare i muscoli, ma ormai sembra alla corda.
Il successivo nuovo lavoro - 777 I Luciferi (Spitfire, 2002) - si riavvicina nuovamente alle sonorità 70s dei primi dischi, ma i risultati sono appena soddisfacenti; non basta una manciata di polverosi riffs presi a prestito per - l’ennesima volta - dai Black Sabbath (Kiss The Skull, Angel Blake) a nascondere una vena ormai prossima ad esaurirsi. Tanto meno entusiasma la copia carbone del motivo portante di Paint It Black propinato in Naked Witch. Alla fine proprio le belle aperture gotiche di Dead Inside e Coldest Sun (in assoluto il miglior brano del lotto) finiscono con l’annegare nella noia della maggior parte dei brani presenti; gli strumentisti continuano a svolgere diligentemente il proprio compito, Glenn Danzig cerca di dare ancora la zampata del vecchio leone, però la convinzione non sembra più quella di un tempo, come anche la voce.
Lo stesso, testardo riproporre tematiche mefistofeliche (Black mass, I Luciferi) sembra una scelta legata più all’immagine da conservare che non una reale, convinta necessità ideologica; curiosamente, nella tournee di supporto, ad aprire sono i Samhain, riformati nel frattempo da Glenn Danzig insieme a Steve Zing e London May e protagonisti di una serie di concerti che riscuotono ottime critiche. Il classico “Samhain sound” diventa più heavy e preciso grazie all’essenziale chitarra di Todd Youth, che completa il gruppo; ovviamente il rischio del fenomeno revivalistico rimane evidente, ma la “sindrome da reunion a tutti i costi” - che tante vecchie glorie ha colpito negli ultimi anni - viene affrontata con dignità ed una sana dose di divertimento.
Nel frattempo, dopo anni di battaglie legali relative all’ utilizzo del nome (e risoltesi in favore del bassista Jerry Only) sono resuscitati i Misfits, ovviamente orfani di Danzig, autori di quattro album (American Psycho - Geffen, 1997; Famous Monsters - Roadrunner, 2000 e Cuts From The Crypt - Geffen, 2002) dalle alterne fortune. I rinnovati Misfits (messi in piedi dopo il gran rifiuto di Dave Vanian dei Damned di prendere il posto di Glenn Danzig), tornano sulla breccia con un disco (Project 1950, Misfits Records/Rycodisk, 2003) che, messa da parte l’irruenza heavy/core, preferisce concentrarsi su un convincente recupero degli stilemi rock ’n' roll a velocità supersoniche. La loro formazione composta da Jerry Only (unico superstite dei membri fondatori), Dez Cadena (ex Black Flag) e Marky Ramone (Ramones) tuttavia avrà breve durata.
Nel mentre, Glenn Danzig, escluso Joey Castillo (sostituito dapprima da Charlee X e poi da Johnny Kelly dei Type O Negative), decide di riesumare il suo gruppo, ripescando Tommy Victor ed inserendo il bassista Jerry Montano (ex Deadlights) insieme al batterista Bevan (ex Jerry Cantrell Band).
Da questa nuova partnership nasce l’ottavo capitolo dei Danzig, Circle of Snakes (Evilive in America, Re-Again in Europa, 2004), accolto tiepidamente e passato completamente inosservato se non fosse per la tournee di supporto, dove l’opening act…sono i Misfits.
Glenn, infatti, riappacificatosi, con Jerry Only, propone mezzora di classici senza tempo che, ironia della sorte, finiscono con l’esaltare il pubblico, più degli stessi headliner Danzig.

CM © 2006

1 Comments:

Blogger Unknown said...

guarda, hai cambiato tre parole dal sito di scaruffi, ma hai utilizzato tutte le stesse frasi

4:19 AM  

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